Lo Storytelling di Coca-Cola

, in Content Marketing

Che Coca-Cola capisca qualcosina di marketing e quindi di storytelling è fuor di dubbio: è stata una delle imprese che hanno creato il marketing moderno, oggetto di innumerevoli analisi e case history. Ma moderno non necessariamente significa attuale: e domandarsi se questa corazzata del modello tradizionale di comunicazione sia adatta a navigare nei mari ancora poco esplorati del layer digitale della Realtà è un’operazione intellettualmente interessante – e come si vedrà – istruttiva.

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Coca-Cola è stata un mastermind del marketing – del marketing tout-court. E’ una delle imprese che lo hanno letteralmente creato, insieme a Procter&Gamble, Lever, GE, MacDonald e le case automobilistiche americane. Tutta la letteratura specialistica è permeata dalle esperienze sviluppate da queste imprese e i loro brand, e buona parte di questa letteratura è stata prodotta da persone che hanno lavorato nel marketing delle major del largo consumo.

E infatti per decenni marketing e B2C hanno coinciso, è solo in anni relativamente recenti che sono state sviluppate metodologie e concetti per il B2B. Ma ora lo scenario è cambiato, per più di un motivo.

 

L’era del Permission Marketing

Seth Godin, nella Mucca Viola [2004] scriveva che il modello basato sulla pura potenza di fuoco comunicativa era agli sgoccioli. Per 60 anni le operation erano state riconducibili a pochi elementi – fondamentalmente 2: dimensione del budget, un buona agenzia pubblicitaria e PR. Con sufficienti risorse finanziarie l’accesso ai grandi mezzi di comunicazione di massa era assicurato, e un dignitoso sviluppo creativo avrebbe fatto il resto. Era solo questione di martellare i consumatori a sufficienza, il messaggio sarebbe passato e i dati di vendita lo avrebbero rivelato. Ma Godin scriveva – ed eravamo in epoca Pre-Social – che il rendimento marginale dell’advertising e delle campagne di comunicazione mostrava un allarmante declino, e ne attribuiva la causa a un cambiamento nell’attitudine delle persone – i destinatari delle campagne. Secondo lui, si stava aprendo l’era del Permission Marketing.

Seth Godin merita. Secondo me aveva ragione, e l’arrivo dei Social Network lo ha reso evidente. I Social sono strutturalmente Permission-based:  seguo un account su Twitter o Instagram perchè lo voglio io, ci colleghiamo bidirezionalmente su Facebook o Linkedin perchè entrambi lo desideriamo. Le informazioni affluiranno dalle fonti che abbiamo deciso di accogliere, e quando quell’account non ci interessa più chiudiamo le comunicazioni.

I Social sono strutturalmente Permission-based, nel senso indicato da Seth Godin - @ThisIsSethsBlog Condividi il Tweet

Ma già 5 anni prima il Cluetrain Manifesto [1999] – che per me contiene alcuni momenti di vera illuminazione – aveva provocatoriamente messo in dubbio l’intero sistema della comunicazione d’impresa.

I mercati sono Conversazioni – tesi #1

Il Cluetrain Manifesto è la stele di Rosetta del Social Media Marketing, ed è tuttavia interessante quanto poco metabolizzate siano state le indicazioni fondamentali che contiene.

I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici – tesi #2

nonchè

Sia che fornisca informazioni, opinioni, scenari, argomenti contro o divertenti digressioni, la voce umana è sostanzialmente aperta, naturale, non artificiosa – tesi #4

e qui ci avviciniamo al tema di questo post: cosa raccontiamo, come lo raccontiamo – lo Storytelling.

 

Storytelling nel layer digitale della realtà

“Layer Digitale della Realtà” è una delle mie espressioni favorite.

Qualunque intervento consulenziale faccia, e ogni corso, inizia con una serie di asserzioni molto Cyberpunk, e questa è uno dei bestseller. Di solito, i miei interlocutori hanno un’idea strumentale del Social World: lo considerano un canale, interessante o preoccupante a seconda delle inclinazioni personali. La disruption di questa convinzione è il prolegomeno a un cambio di visione, che è uno degli obiettivi che mi interessa cogliere. Di solito, prima o poi, arriva lo Zero Moment [*] ed è possibile cogliere l’attimo: c’è un click avvertibile nella mente di chi ho di fronte, e dopo le domande saranno diverse.

[*] Zero Moment of Truth – ZMOT è un’espressione creata da Google: “the Internet has changed how we decide what to buy. At Google, we call this online decision-making moment the Zero Moment of Truth, or simply, ZMOT

Dopo il click, arriva un’altro dei miei preferred quote:

Online, siamo ciò di cui parliamo

e di nuovo, ciò conduce allo Storytelling.

Se i temi – i Topic – ci caratterizzano online, il Content Media Marketing è evidentemente la prassi centrale, i Social sono soprattutto strumenti di amplificazione e relazione:  le scelte tematiche, lo Stile, la Voce, le Storie che sviluppiamo non sono elementi accessori, con un valore solo estetico-formale: sono la manifestazione della nostra Identità Digitale.

 

Storytelling B2C: facile?

Un mito diffuso è che Storytelling e Social Media Marketing siano soprattutto strumenti per imprese consumer-oriented [B2C]. Il preconcetto deriva dall’errore di cui sopra: se li concepiamo solo come canali e tool, ce ne deriva l’idea che siano un modo per raggiungere a basso costo un sacco di gente, una “nuova” forma di advertising. E siccome da una cattiva modellizzazione discendono pessime derivazioni, li useremo proprio come se fosse pubblicità semigratuita. Annoieremo un pubblico indeterminato – e comunque assai ridotto – con affermazioni autoreferenziali, slogan dilettantistici [in fondo, non siamo dei copy esperti], grafiche debolissime [non siamo neppure dei graphic designer].

Per la mia esperienza – invece – Content Media Marketing e Storytelling sono molto più facili per le imprese B2B, quelle che hanno come interlocutori – Audience è il termine giusto – operatori e decisori professionali e non il pubblico degli utenti finali. E’ più facile perchè possiamo costruire Buyer Personas con maggiore precisione [e qui c’è un buon post per capire cos’è una Buyer Persona e come definire quelle che ci servono]

 

e perchè il loro Customer Journey è più prevedibile, perchè possiamo immaginare più agevolmente i loro bisogni informativi e i loro criteri di valutazione.

 

Il motivo per cui elaborare forme di Storytelling che funzionano per prodotti [e sevizi] a largo consumo è difficile deriva proprio dalla loro natura: contengono modesti livelli di valore aggiunto, sono poco differenziati rispetto ai concorrenti [e spesso sono differenziati in modo artificioso], quasi sempre la variabile prezzo è determinante.

#Contentmarketing e #Storytelling sono più semplici per i brand #B2B che per quelli B2C Condividi il Tweet

Per esempio: ho avuto un’esperienza consulenziale diretta nella creazione dell’identità digitale e nello sviluppo del Social e Content Media Marketing [e quindi dello Storytelling] di 2 produttori di birra, e malgrado fossero molto diversi tra loro – uno è un’enorme multinazionale, l’altro è un birrificio artigianale in rapido sviluppo – e le difficoltà di analisi iniziale e formulazione dei Topic erano simili, e assai più rilevanti per la multinazionale.

Se ci fate caso, praticamente nessun produttore di birra industriale ha la birra al centro del proprio Storytelling: Heineken ha la musica come Topic, Nastro Azzurro l’italian way of life, Ichnusa il territorio [Sardegna], l’America profonda della provincia per Miller, sport + musica + street food per Peroni, di nuovo il territorio per Forst, ecc.

Ovvero: un prodotto a bassa complessità come la birra non permette di sviluppare uno Storytelling autoportante. E’ necessario:

  1. individuare un Topic esterno [la musica giovanile per Heineken, i concerti]
  2. associarlo al prodotto
  3. acquisirne la dominanza tematica

e la birra diventa un’associazione mentale – un Priming.

La situazione è migliore ma non molto diversa per le birre artigianali: c’è più spazio per raccontare le intuizioni del mastro birraio, gli ingredienti: ma il fatto stesso che le etichette e le loro grafiche siano un fattore cruciale di competizione fa capire che più che il prodotto in senso stretto quello che si veicola è un mood. E anche i produttori artigianali declinano la loro Identità, sia digitale che real, in modo trasversale: i Topic sono l’amicizia, la vita all’aria aperta, la birra agricola come sinonimo di naturalità, il radicamento territoriale [e quindi il dialetto, i meme e gli eventi locali].

 

Lo Storytelling di Coca-Cola

E siamo arrivati al titolo del post. Il Content Marketing Institute ha pubblicato un post con l’intervista a Kate Santore – Integrated Marketing Content di Coca-Cola.

Se la birra industriale è un prodotto a basso valore aggiunto, la Coca-Cola è l’apoteosi dell’impossibilità di narrare le caratteristiche intrinseche. L’unica faccenda intrigante è l’ingrediente segreto, che essendo appunto segreto non è comunicabile.

Tuttavia Coca-Cola ha sviluppato un sistema di temi e riferimenti narrativi, perchè in caso contrario non avrebbe avuto materia prima per lo Storytelling: e ovviamente si tratta di Topic indiretti. Dice Santore:

“At Coca-Cola, we want to create Coca-Cola stories and not stories by Coca-Cola. That holds true when our product is a character in the story with a credible role to play. There are four typical archetypes that we look to: object of desire, embodiment of an attitude, social connector, and functional offering or benefit. If you read a script or even partner-created content and say to yourself, “Can I tell this story without Coca-Cola?” and the answer is yes, then it’s a not a Coca-Cola story. “

Quindi, 4 archetipi narrativi, nessuno dei quali ha al centro la bevanda in quanto tale. Per me sono particolarmente interessanti il terzo e il quarto:

  • rappresentare il prodotto come un catalizzatore di relazione sociale – storie in cui delle persone vivono momenti comuni [i Life Moment sono uno dei pilastri del marketing post-massivo]
  • creare storie che rappresentino un’offerta funzionale o evidenzino un beneficio per l’Audience

Perchè li trovo interessanti, soprattutto il quarto?

Perchè nel mio modello consulenziale, in specie per imprese B2B, uno dei criteri chiave per valutare le potenzialità di un’azione di Content Media Marketing è verificare se il contenuto risponda a una serie di presupposti funzionali, e uno dei più importanti è proprio la sua capacità di essere utile, risolvere un problema, semplificare il processo decisionale delle Personas cui è destinato [l’Audience, di nuovo].

Ed è rilevante che sia una delle portanti anche del brand B2C per antonomasia; indica che nel Layer Digitale della Realtà c’è poco posto per contenuti che non abbiano un valore per l’Audience, che si limitino a veicolare affermazioni unidirezionali senza profondità [lo slogan].

Se siamo nell’era del Permission Marketing, e se i Social ne sono la manifestazione più evidente, anche un produttore mass-market deve trovare una chiave che gli permetta di richiedere l’attenzionee il tempo, che online è la vera risorsa scarsa – delle persone con cui vuole conversare, nel senso della 1.a tesi del Cluetrain Manifesto.

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